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La signorile sciatteria dei ricci di mare Storia breve di un rituale intimo in cui si venera Sua Maestà il Riccio di Mare.
  Aprile 16, 2024     Assistenza Marketing  

Una delle azioni più riprorevoli che abbia mai compiuto in vita mia è stata mandare indietro un piatto di Mauro Uliassi. Che poi tecnicamente non è neppure stato un mandare indietro vero e proprio: era il 2007, giravamo per stellati con l’inconsapevole tracotanza dei ventenni e quando ci era stata servita una ricciola con latte di cocco “Antonio Mattei” e un gelato ai ricci di mare, ecco, avevamo lasciato pressoché intonsa una delle due metà del piatto di portata. Quella in cui si annidava il gelato, appunto, ai ricci. Dalla cucina ricordo uscire un’appetizer sostitutivo, un gesto molto gentile che conservo ancora come chicca di un’esperienza spaziale. Se mi leggi, Maestro: scusaci, avevamo solo vent’anni.
E dire che nella mia famiglia il riccio di mare è sempre stato piuttosto presente: se avessimo dovuto scegliere un simbolo da mettere nel nostro scudo araldico, come i Barberini scelsero le api noi avremmo dovuto optare per il Paracentrotus Lividus. Mia nonna raccontava sempre la storia di questa sua amica abruzzese, conosciuta durante il periodo da sfollata, che quando per la prima volta aveva visto il mare, e le avevano offerto un riccio, aveva chiesto candidamente: «Come si mangia?». E mia nonna: «A mozzichi». Alla scena della rimozione al pronto soccorso delle spine dalle gengive arrivava sempre con le lacrime agli occhi. La mia stessa nascita è avvolta, come la polpa del riccio dal carapace spinoso, in una mezza leggenda che ha a che vedere con una voglia in gravidanza bizzarra di mia mamma, e uno zio coraggioso che si butta in acqua a febbraio per non farmi nascere, immagino, con una testa spiniforme.
La parte edibile del riccio, le gonadi, che in Giappone chiamano Uni, è la quintessenza (una caratteristica che abbiamo introiettato tutti, in famiglia) della divisività, un po’ come succede per molti altri frutti di mare: insomma, l’adori o la detesti. Una divisività che è, in prima battuta, visiva: ti trovi di fronte questa polpa burrosa, giallarancione, che si porta dentro tutto il sapore del mare eppure riesce a essere anche dolce, e ti dici: ne varrà la pena? Il gusto del riccio è un mistero della fede.
Dalle mie parti, nel litorale laziale a Nord di Roma, il riccio è una specie di sovrano tribale. Abbiamo addirittura due nomi diversi per l’Arbacia Lixula – tutto nero, ingannevole, che chiamiamo riccio maschio, o strega – e il Paracentrotus lividus, con le sue sfumature verdognole e brunorossastre, che è il riccio femmina, la regina di un gineceo di prelibatezze ittiche, feticcio totemico al culto del quale abbiamo dedicato una ritualità con precise regole codificate che chiamiamo ricciata.
La figura del raccoglitore di ricci, dalle nostre parti, per quanto non finisca quasi mai per rischiare la vita, è mitica quanto quella dei raccoglitori di percebes nelle Asturie, o le haenyeo in Giappone, pescatrici subacque che in apnea si immergono per strappare i ricci dall’Oceano. Si muove sui fondali bassi con questi catini di plastica sul cui fondo è montata una piccola lastra di vetro, attraverso la quale riescono a distinguere le regine dalle streghe. E con un’asta rudimentale, una lunga canna di bambù con un’estremità tenuta aperta a ventaglio grazie a un tappo di damigiana, raccolgono.


A Punta della Quaglia, alla Frasca, a Punta del Pecoraro ci dirigiamo, come dervisci, rigorosamente nei mesi co la erre (che sono poi quelli che vanno tra settembre e aprile, cioè il periodo in cui è consentita la pesca): di prima mattina, mentre spira un bel vento di tramontana che ti fa proprio venir voglia di entrare in acqua, a piedi gnudi raccogliamo ricci che buttiamo in una bagnarola, un catino di quelli di plastica blu, creando uno ziqurrat di ricci di mare. Poi ci sediamo sugli scogli, e cominciamo ad aprire.

Aprire un riccio di mare è un’operazione a metà tra lo sgusciare un gambero e aprire un’ostrica: non è complicato ma devi trovare il verso, prendere le misure. Affondi le forbici e tagli il carapace in due emisferi, e poi sgrulli (cioè scuoti) quello in cui si trova il corallo, cioè la polpa: se vuoi fare una finezza da marinaio, puoi anche immergerlo nell’acqua di mare per ripulirlo dalle spine. L’eucarestia marinara vera avviene qua: a meno che non sia un lupo di mare, e preferisca affondare direttamente il dito, strappi un pezzo di rosetta e con questa raccogli la polpa, transustanzizione scarpettarola. Tra un boccone e l’altro, un sorso di vino, ma bada bene: che sia rosso. Il gran cerimoniere del rito, che spesso è quello che ha trascorso più tempo coi piedi a bagno, si porterà alle labbra l’apparato boccale del riccio, un anfratto che si trova nella parte ventrale, recondito e foriero di gloria quasi quanto una specie di punto G, per succhiare via tutta l’essenza del mare. Se il riccio di mare è così affascinante è perché è una promessa: dietro alle spine, e al veleno, nasconde una delizia, e una ritualità, che si interlacciano e fanno l’una da propellente all’altra. Io, che vedo ricci da quando ero un ragazzino coi sandaletti di plastica blu con gli occhietti che al mare veniva messo in guardia sulla pericolosità dei ricci, sono arrivato a sconfiggere il timore reverenziale di assaggiarli piuttosto tardi: quando, cioè, sono stato invitato a una ricciata.La serata da Uliassi era passata da un pezzo. La mia ventennitudine, pure.



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